mercoledì 26 ottobre 2011

La verità sulle pensioni: pochi giovani per molti vecchi

Mercoledì, 26 ottobre 2011 - 13:20:15

Di Giovanni Esposito
Sistema pensionistico basato sulla "capitalizzazione" che preveda l'investimento dei contributi riscossi dai lavoratori attivi per il pagamento delle pensioni, con la conseguente costituzione riserve tecniche; metodo di calcolo "contributivo", in base al quale le prestazioni siano calcolate in funzione dell'ammontare dei contributi versati dal singolo; requisiti d'accesso al pensionamento, fissati in 65 anni per gli uomini e per le donne. Se pensate che questi siano i cardini di un'attuale proposta di revisione del sistema previdenziale, siete totalmente fuori strada. Questi sono i principi della riforma varata in Italia nello stesso anno in cui, i tenenti Frassetto, Rusconi, Ciatti, Brichetti e Adami, il 31 agosto, giurarono: "In nome di tutti i morti, per l'unità d'Italia, giuro d'essere fedele alla causa santa di Fiume, non permetterò mai con tutti i mezzi che si neghi a Fiume l'annessione completa e incondizionata all'Italia. Giuro di essere fedele al motto: "ITALIA O MORTE!".

Non solo è arcinoto cosa si debba fare, ma il sistema equo e sostenibile esisteva già; solo che i nostri padri (gli stessi che tutti osannano come costituenti) lo hanno progressivamente scardinato fino alla contro-riforma del 1968, il successivo consociativismo lo ha distrutto e l'attuale classe politica non ha avuto il coraggio di riformarlo strutturalmente.

Tornando ai nostri giorni, che sulle pensioni incomba il dovere di intervenire, perché il sistema è insostenibile, non vi è ombra dubbio: lo dicono i numeri. Ahimè, le argomentazioni utilizzate, seppur teoricamente condivisibili, risultano false. Il Governo, la Confindustria, la stampa, parte del sindacato e delle opposizioni (le restanti utilizzano argomentazioni anche se diverse, ugualmente prive di fondamento) sostengono che per garantire l'equilibrio, l'ammontare delle pensioni dovrà essere correlato ai propri contributi versati durante la vita lavorativa.

 Non so se questi ragionamenti siano figli di una classe dirigente, trasversalmente ed a tutti i livelli, composta da stupidi, oppure da bugiardi che sanno di mentire. Resta il fatto che le cose non stanno come ci dicono.
 Questo ragionamento potrebbe stare in piedi in un sistema a capitalizzazione, nel quale gli enti pensionistici pubblici accantonano i contributi dei singoli soggetti durante la vita lavorativa, per poi prelevarne i frutti al fine di erogare le pensioni agli stessi soggetti.
Ma non è cosi: difatti, per far fronte al pagamento delle pensioni future, non è stata (e non viene) accumulata alcuna riserva.

 Nel nostro Paese, il sistema pensionistico pubblico (Inps, Inpadap, ecc.) è strutturato secondo un criterio corrente (denominato a ripartizione). Ciò implica che i contributi versati da lavoratori ed aziende agli enti di previdenza, vengano utilizzati per pagare gli assegni di coloro che in quel momento sono in pensione. Risulta, peraltro, evidente che in un sistema così concepito, il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi) dovrebbe essere in equilibrio con l'ammontare delle uscite (le pensioni pagate).
 In altri termini, a dispetto dei sbandierati principi equitativi, con il sistema vigente ogni generazione non potrà percepire alcuna pensione commisurata ai propri contributi versati, ma era (è e sarà) condannata ad avere un assegno in linea ai contributi di quella che in quel momento lavora.
 Siccome per molti decenni, i versamenti sarebbero risultati superiori alle pensioni da erogare in base ad un sistema equo e sostenibile, il surplus è stato sperperato e dissipato nel calderone dell'assistenza e della fiscalità generale, insomma come ammortizzatore sociale da utilizzare per la macchina del consenso (non esistono dati ufficiali, ma si potrebbe stimare, con una certa approssimazione, che l'ammanco ad oggi ammonti a 3-5 mila miliardi di euro).

 L'unico e vero motivo per il quale i futuri pensionati dovranno percepire una pensione più bassa è la conseguenza di meno lavoratori condannati a mantenere sempre più pensionati. L'evoluzione demografica, invero, farà si che nei prossimi anni (almeno fino alla metà del secolo) la proporzione lavoratori/pensionati avrà un dinamica a favore dei secondi.

Tutte le proiezioni sulla sostenibilità del sistema sono fatte, nella migliore delle ipotesi, per garantire correntemente l'equilibrio contributi versati/pensioni erogate, senza prevedere che, nei momenti di piramide demografica regolare, il surplus generato debba incrementare una riserva dalla quale attingere nei momenti di inversione della composizione anagrafica della popolazione. Questo è il vero ed assurdo paradosso del nostro sistema pensionistico: si percepisce una pensione proporzionale ai contributi versati … dalle altre generazioni.
http://affaritaliani.libero.it/economia/pensioni26102011.html

La soluzione per gli esuberi Fincantieri? Paghiamogli lo stipendio per non farli lavorare!

Venerdì, 27 maggio 2011 - 11:58:00
Pubblichiamo la provocazione del commercialista napoletano, Giovanni Esposito, che ha già fatto su Affaritaliani.it le pulci a Marchionne, Montezemolo, al Sole 24Ore, a Romani e ai politici...
Di  Giovanni Esposito
Alcuni mesi fa, quando incontrati una ex dipendente di quella che fu la compagnia di bandiera italiana, le chiesi se fosse alla ricerca di un lavoro. Lei mi guardo e, con aria sorpresa, mi disse:  "Perché dovrei farlo se posso godere fino ad 8 anni di “ammortizzatori sociali”, pari anche all’80% dello stipendio, senza fare nulla?"
Come darle torto!
Visto che anche per i 1.100 operai della ex fabbrica Bertone, nel non prendere alcuna decisione industriale, si è deciso di tenerli in CIG (ossia a carico della collettività) oramai da 7 anni, ritengo ci siano i precedenti per risolvere il problema esuberi della Fincantieri.
Ristrutturiamo il gruppo cantieristico con il denaro del contribuente e chiudiamo gli stabilimenti di Sestri Ponente e Castellammare di Stabia.
Certo, resterebbe il problema dei 2500 dipendenti in esubero.
Mandiamoli a casa e paghiamoci lo stipendio per i prossimi 16 anni (il doppio di ciò che si è fatto per quelli Alitalia), con una condizione: non si trovino un altro lavoro!
http://affaritaliani.libero.it/economia/fincantieri_soluzione270511.html

Nella previdenza l'ennesima ingiustizia generazionnale

Venerdì, 29 aprile 2011 - 12:18:00
Di Giovanni Esposito
L’intera opinione pubblica italiana, su varie questioni, oramai parla con un’unica voce, fra queste la necessità di sviluppare la previdenza complementare. Non c’è opinionista, politico, industriale ed economista che, debitamente interrogato, non la proponga ricordandoci che le nuove generazioni entrate nel mercato del lavoro percepiranno, dalla gestione previdenziale obbligatoria (ad. esempio l’Inps), un assegno pensionistico molto lontano dal loro ultimo stipendio (per pochi si raggiungerebbe il 50 per cento). In tale contesto, il secondo “pilastro” previdenziale, ignorando che nessun sistema sostenibile può restituire più di quanto abbia preventivamente raccolto, viene percepito e propagandato come una medicina, priva di controindicazioni, da somministrare per tutti i mali.
Ma i fondi pensione su cui si basa la previdenza integrativa e che sono alimentati dal TFR e/o da contributi volontari, sono la panacea per i giovani lavoratori? Io credo proprio di No.
Si consideri, infatti, un neo assunto trentenne, che lavori ininterrottamente fino ai 65 anni, con stipendio netto mensile di 1.500 euro e, a titolo esemplificativo, si assuma che il TFR maturato sia pari ad una mensilità l’anno e si escluda sia la rivalutazione monetaria, sia la variazione del potere d’acquisto. Fino ad ora, l’azienda tratteneva il TFR per tutta la vita lavorativa (35 anni), ed al termine di questa, restituiva al lavoratore in un’unica soluzione 52.500 euro (35 anni per 1.500). Povero lavoratore (avranno certamente pensato)! Al termine di una vita di sacrifici, trovandosi con questo gruzzoletto fra le mani, potrebbe cadere in malefiche tentazioni dissipatrici (magari l’anticipo per la casa di un figlio). Pertanto la classe dirigente del nostro paese, premurosa per il “figlio” trentenne, cosa gli consiglia? Gli consiglia (se non impone) di versare questo salario differito ad un gestore che, al compimento dei 65 anni, invece di dargli la somma in un’unica soluzione, gliela verserà a rate secondo un sistema probabilistico basato sull’aspettativa di vita. Tornando al nostro trentenne, e supponendo un’aspettativa di vita media pari ad 80 anni, questi riceverebbe un “vitalizio” di 292 euro al mese (il “montante” di 52.500 diviso per il numero di mesi attesi di vita residua). E dove sarebbe il beneficio? È vero che in termini  matematici tale ragionamento sconta una serie innumerevoli di approssimazioni, ma è altrettanto vero che, per il solo fatto che esistano le spese di gestione, nessun ente potrà mai restituire quanto raccolto ed investito.
Viene, inoltre, sostenuto che i nostri trentenni, maturando una pensione inadeguata, dovranno costruirsi un sistema di previdenza integrativo privato; e ciò sarà ancora più valido per chi, più sfortunato, avrà una vita da precario. L’adesione ad una previdenza complementare, basata su versamenti volontari, considerata in maniera astratta appare un’ottima soluzione, ma applicata ai casi concreti, diviene difficilmente sostenibile: invero, per garantirsi un minimo ritorno economico, bisognerebbe versare ininterrottamente almeno 5.000 euro l’anno. Considerato, infine, che più basso è il reddito, maggiore sarà il bisogno di integrare la pensione principale, sorgono seri dubbi su come questi giovani (già alle prese con le rate del mutuo) faranno a sottrarre 5.000 l’anno dalle loro primarie necessità. E se anche lo facessero, quali conseguenze ci sarebbero sui consumi?
La questione previdenziale delle giovani generazioni poteva essere affrontata e risolta più di un decennio fa, ma si preferì istituzionalizzare una sperequazione generazionale. Nel 1995, infatti, quando apparve evidente che il sistema retributivo (in base al quale la pensione va calcolata sugli ultimi stipendi percepiti) non era oltremodo sostenibile, sotto il falso proclama dei diritti acquisiti, si decise di salvaguardare i privilegi (acquisiti). Si dovrebbe, quindi, avere l’onestà intellettuale di riconoscere che alcune generazioni (sicuramente quelle che nel 1995 avevano maturato 18 anni di contribuiti), percependo in pensione più di quanto abbiano versato, stanno godendo di un privilegio a svantaggio delle generazioni successive: difatti i contributi di chi oggi lavora, invece di essere accantonati, finanziano le pensioni correnti.
Per quanto traumatico, sarebbe stato lungimirante ma soprattutto equo, prevedere il passaggio al sistema contributivo per tutti; si decise altrimenti, ipotecando i contributi dei futuri pensionati.
http://affaritaliani.libero.it/economia/pensioni290411.html

giovedì 20 ottobre 2011

Trichet, un burocrate che ha stroncato la ripresa

Giovedì, 20 ottobre 2011 - 15:10:33

Di Giovanni Esposito


Pur risultando difficile comprendere per quale motivo, diverse persone, decidano di conseguire due lauree in indirizzi totalmente diversi fra loro, quando è già difficile fare bene (e trovare) una solo mestiere, le storie di Sergio Marchionne e Jean-Claude Trichet mi hanno insegnato a diffidare di costoro.

L'ingegnare minerario Jean-Claude Trichet convertito all'economia, dopo una classica carriera da burocrate in tutti  gli inutile e dannosi organismi monetari sovranazionali e nazionali (francesi) ed una trombatura  (che a quei livelli pare faccia curriculum) alla presidenza Bce nel 1993, ricopre dal 1995 al 2003 la carica di Governatore supplente del Fondo monetario internazionale, lo stesso FMI che trasformò il panico monetario asiatico del 1997 in un completo disastro economico, che aiutò la Russia a fare bancarotta nel 1998 e le cui politiche indussero l'Argentina al default del 2001.

Jean-Claude Trichet approdando, con questa credenziali, al vertice della Bce il 01 novembre 2003, nella migliore delle ipotesi c'era da aspettarsi che, il suo mandato, sarebbe trascorso senza infamia e senza lode; invece la sola lode è stata assente: la sua reggenza è stata segnata dalla totale mancanza di tempismo, di interpretazione degli eventi e di lungimiranza. È vero che il mandato principale della Bce è la stabilità dei prezzi, ma questa chimera si è trasformata in un'accecante ossessione.

Dopo i primi presagi, che risalgono addirittura al 2007, nel luglio del 2008 grandi banche e istituzioni finanziarie a livello mondiale denunciano perdite per circa 435 miliari di dollari. Il 03 luglio 2008 mister Trichet, con le idee ben chiare su quali fossero i pericoli alle porte, cosi annunciava il rialzo del tasso di sconto dal 4,00% al 4,25%: "Noi banchieri centrali abbiamo una grande responsabilità. Se non agiamo con decisione, c'è il rischio di un'esplosione dell' inflazione". Nel terzo trimestre del 2008, con un Pil in calo dello 0,2%, Eurolandia entra in recessione tecnica: Trichet è costretto ad un clamoroso dietrofront che, con sette tagli consecutivi, porterà il tasso di riferimento all'1,00%.

All'inizio del 2011 la crescita nella aera Euro latita, Grecia ed Irlanda oramai hanno perso il controllo dei propri conti, ma Trichet va solitario per la sua strada. Il 7 aprile 2011, lo stesso giorno nel quale la UE riceve una richiesta formale di aiuto da parte del governo portoghese per circa 90 miliardi di euro, porta il tasso di rifermento dall'1,00% all'1,25%. Il 7 luglio 2011 avviene il rialzo dei tassi all'1,5%. La crisi del debito sovrano orami senza controllo colpisce anche Spagna e Italia, i mercati finanziari sprofondano, spread e credit default swap schizzano alle stelle, ma l'ing. Trichet ci rassicura con un "monitoreremo con molta attenzione i rischi sui prezzi". Pare che il successore Mario Draghi abbia effettuato, per fortuna, solo studi economici. Basterà?
http://affaritaliani.libero.it/economia/bce_trichet_draghi20102011.html

lunedì 17 ottobre 2011

La truffa delle scelte generiche ed inespresse del 5 e dell'8 per mille

Lunedì, 17 ottobre 2011 - 14:08:08
di Giovanni Esposito
Lo Stato Italiano permette, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 5 per mille dell’Irpef a finalità di interesse sociale e l’8 per mille alle confessioni religiose (o allo Stato) per scopi definiti per legge. Abbiamo già parlato  di alcuni fattori generali che ne potrebbero consigliare la modifica se non addirittura la soppressione. Ma esistono delle criticità che in un momento di sacrifici, risultano inaccettabili: infatti molti contribuenti ritengono che, non effettuando alcuna scelta, i soldi non vadano a nessuno, ma si sbagliano!
In forza degli 47, 48 e 49 della legge 20 maggio 1985, lo Stato Italiano ripartisce, in base alle scelte dei contribuenti, l’8‰ “dell’intero” gettito fiscale IRPEF, fra le sette confessioni religiose e lo Stato stesso in proporzione al numero delle scelte espresse da ciascun contribuente. Nonostante molti contribuenti non esprimano alcuna preferenza, la ripartizione dell’intero gettito deriva dall’art. 47 della citata legge che recita "…In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse". In altre parole l’8 per mille dell’Irpef di chi non effettua alcuna scelta viene in ogni caso ripartito. Tale previsione non appare condivisibile poiché risulta in contrasto con l’assioma che in un stato di diritto chi tace non acconsente, bensì non dice niente.
La possibilità che i contribuenti possano destinare una quota pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale fra i circa 42 mila enti di volontariato iscritti, viene, invece, stabilita anno per anno (Dl n. 225 del 29/12/2010, convertito dalla Legge n.10 del 26 febbraio 2011). Lo Stato destina, in questo caso, solo il gettito derivante dalle “scelte” dei contribuenti, ma da la possibilità di effettuare le cosiddette scelte generiche, che vengono ripartite in base alle scelte espresse.
Secondo gli ultimi dati aggiornati (che inspiegabilmente il Ministero diffonde con vari anni di ritardo), nel quadriennio 2000-2003, lo Stato italiano ha elargito alle confessioni religiose (in prevalenza la Chiesa Cattolica) 3,8 miliardi di euro, senza che i relativi contribuenti avessero effettuato alcuna scelta.
Ma queste diposizioni sono una truffa! Una modifica delle normative volta a far rimanere nella fiscalità generale la quota Irpef delle scelte inespresse dell’8 per mille e delle scelte generiche del 5 per mille, permetterebbe di ricondurre il gettito di tali opzioni ad una ripartizione in linea con la reale volontà dei contribuenti e di realizzare un consistente risparmio per l’erario di quasi un miliardo di euro l’anno.
Un analisi dei dati (migliaia di euro)
truffa tabella 1
truffa tabella 2
Ne deriva che il risparmio strutturale:
truffa tabella 3
http://affaritaliani.libero.it/economia/la-truffa-delle-scelte-sull-8-per-mille171011.html

mercoledì 12 ottobre 2011

Aboliamo il 5 e l’8 per mille. Per tre buoni motivi

Sabato, 11 giugno 2011 - 13:00:00
Di Giovanni Esposito
Anche per il 2011, con la stagione delle dichiarazioni fiscali, sta per concludersi la gara per accaparrarsi il 5 e l’8 per mille dell’Irpef. Con questi sistemi, sei confessioni religiose e 42 mila enti di volontariato (?), si spartiscono una torta annua da 1,5 miliardi di euro.
Io non sono contro la solidarietà, ma esistono almeno tre buoni motivi per i quali, il meccanismo con cui lo Stato italiano ripartisce, in base alle scelte dei contribuenti, il 5‰ e l’8‰ del gettito fiscale IRPEF, fra le diverse confessioni religiose e agli enti che svolgono (presumibilmente) attività socialmente rilevanti, andrebbe abolito.
In linea di principio, gli scopi che si prefiggono i soggetti destinatari, come la conservazione dei beni culturali, l’assistenza ai rifugiati, la ricerca scientifica e sanitaria, il sostegno all’università, alle attività sociali ed allo sport, dovrebbero essere garantiti e svolti dallo Stato in prima persona e nell’interesse dell’intera collettività. Non esiste, quindi, ratio che ne giustifichi la delega a terzi ed a beneficio solo di alcuni.
Nei fatti una quota rilevante degli introiti raccolti, non subisce una reale destinazione sociale. Anzi, serve a finanziare, nelle migliori ipotesi, le spese “interne” di tali enti (300 milioni l’anno in stipendi per i sacerdoti), nelle peggiori, la corruzione ed il malaffare di inesistenti associazioni. Questa distorsione viene alimentata da un legislatore che, ostaggio di alcune lobby, non ha imposto un reale vincolo di destinazione per l’interesse generale, bensì un mero rendiconto ex post. In altri termini è sufficiente autocertificare come si è speso il danaro, senza che nessuno possa sindacare il come e perché.
Infine a differenza di come viene contrabbandato, la scelta di vincolare una quota del gettito Irpef non è a costo zero, anzi rappresenta una spesa per l’erario. Utilizzare questi fondi a riduzione del disavanzo pubblico, di cui rappresentano oltre il 3%, forse sarebbe il miglior fine sociale possibile.
http://affaritaliani.libero.it/economia/_5_8_per_mille_aboliti060611.html

lunedì 10 ottobre 2011

Portare i Ministeri al Nord? Prima sfrattare gli inquilini

Sabato, 25 giugno 2011 - 13:00:00
Di Giovanni Esposito
Dai palazzi romani alle praterie di Pontida, i vostri (perché io non mi sento rappresentato) politici hanno deciso, rinnegato, rinegoziato, contestato e poi di nuovo rinnegato, per decidere sul nulla, ossia l'eventuale trasloco della sede dei Ministeri. Cosa possa mai cambiare per noi poveri sudditi, dove si trovi un ministero, non è dato saperlo.
D'altra parte risulta veramente difficile immaginare che una sgangherata macchina pubblica possa migliorare, per il solo fatto che si trasferisca …

Mentre richiamavo alla mia memoria queste vicende, pensavo al Ministero delle Finanze ed al sig. Fisco.
Un disorganico e contradditorio impianto normativo nel quale convivono:  il sistema di tassazione delle persone fisiche basato, teoricamente, su cinque aliquote progressive Irpef;  teoricamente, perché vi sono tante di quelle detrazioni e deduzioni, variabili nella percentuale (19%, 20%, 36%, 41% e 55%), nel numero di anni (da 1 a 10) e nell'importo (molte in funzione del reddito), che il principio Costituzionale della <<capacità contributiva>> viene messo a dura prova; le addizionali regionali e comunali con le relative maggiorazioni ed esenzioni; l'Irap che, in quanto unanimemente riconosciuta la più sventurata delle imposte, è stranamente sopravvissuta a tutti gli schieramenti governativi; l'Irap, in merito alla quale, lo stesso legislatore non sa chi siano i lavoratori autonomi obbligati a pagarla e quali quelli esentati;  i cosiddetti regimi semplificati (per chi?) ad imposta sostitutiva (come i minimi per le imprese e la cedolare secca per le locazioni) che hanno scardinato ogni principio di progressione e di equità fiscale; una determinazione del reddito d'impresa talmente farraginoso, che le dichiarazioni fiscali hanno un numero di righi/colonne superiore ai nominativi dei vecchi elenchi telefonici; una giungla di adempimenti il cui nome fa rabbrividire il più fedele dei contribuenti: spesometro, redditometro, black list, intrastat, studi di settore, parametri, società di comodo, dichiarazioni d'intento, ecc; un sistema di controlli il cui scopo non è quello sacrosanto di scovare gli evasori, bensì quello di recuperare gettito; e cosi proseguendo fra contraddizioni, sovrapposizioni, iniquità e follie interpretative.
Spostare qualche ufficio del Ministero migliorerebbe una sola di queste criticità?! Se per mia sfortuna non amassi l'Italia, dovrei consigliare agli imprenditori di chiudere bottega e spostarsi all'estero. Con questo scenario, se una classe politica (quindi maggioranza ed opposizione) dissipa il tempo a discutere dove impiantare una sede di rappresentanza (di cosa?) del Ministero delle Finanze, significa una solo cosa: l'attuale arco costituzionale è inadeguato alle sfide dell'Italia. Più che traslocare sedi Istituzionali, dovremmo sfrattarne, a calci nel sedere, gli inquilini dei piani alti.
http://affaritaliani.libero.it/economia/ministeri_al_nord22062011.html

venerdì 7 ottobre 2011

Il Sole 24 Ore/ Bene la svolta di Napoletano, ma chi paga il conto degli errori commessi da Cerutti, Calabi, Treu e Riotta? Tutti i numeri del disastro

Venerdì, 1 luglio 2011 - 18:04:00
Leggendo Il Sole 24 Ore della gestione Napoletano, non posso che complimentarmi con il nuovo direttore: tranne qualche sbavatura (i non sempre verdi editoriali di Stefano Folli) è avvenuto un salutare cambio di Riotta (pardon rotta). Mi pare concreto, tecnico e ha, opportunamente, abbandonato ogni tentazione generalista. Insomma tutte le condizioni che possa arrestarsi l’emorragia di copie.
Però… chi paga il conto per gli errori commessi?
Il cav. Giancarlo Cerutti è stato nominato presidente de Il Sole 24 Ore spa il 26 gennaio del 2007. Da allora al 31 marzo 2011 (ultimo dato utile), il gruppo ha bruciato cassa per 221 milioni di euro. Ossia 145 mila euro al dì per 1.525 giorni consecutivi (festivi compresi).
La quotazione del Gruppo è stata fortemente voluta dall’allora presidente di Confindustria (cav. Luca Cordero di Montezemolo), agli oltre 27 mila investitori che ci hanno creduto, la fiducia riposta è costata l’80% del capitale investito per una perdita totale di 166 milioni di euro.
Il dott. Claudio Calabi (incappato nel 2002 in un incidente di insider trading) è stato amministratore delegato del gruppo dal 18 ottobre 2005 al 14 dicembre 2009, fra i fatti rilevanti accaduti sotto la sua gestione:
- la vendita della sede storica di via Lomazzo a Milano che ha permesso di gonfiare "una tantum" gli utili pre-quotazioni di 11,6 milioni di euro, peccato che nel 2010, per la sola sede di via Monterosa, il canone di locazione sia ammontato a 9,5 milioni di euro;
- acquisizione per 40 milioni di euro della GPP spa, operazione costata in meno di tre anni 14 milioni di svalutazioni e 11 di perdite (preciso che un mio tentativo di indagine per comprendere i soggetti venditori, per le difficoltà riscontrate,  ha smarrito la strada);
- operazioni Blogosfere, Str spa, Diamante spa ed Esa Software spa che a lungo termine, sotto il profilo costi-benefici, hanno realizzato risultati del tutto modesti.
- 944 mila euro di compensi percepiti nel solo 2009;
Il sig. Antonello Molina:
- nel 2008 ci ha venduto il 70% della Esa Software spa per oltre 40 milioni di euro;
- nel 2009 ne ha impugnato il bilancio,
- nel 2010 ha incassato, personalmente compensi per 360 mila euro e società a lui collegate canoni di locazione per 628 mila euro (totale arrotondato 1 milione di euro);
- nel 2011 gli scade una blindatissima opzione put sul restante 30% della Esa Software spa.
Sotto la reggenza della dott.ssa Donatella Treu, cooptata nel cda il 1 febbraio 2010 e ancora oggi amministratore delegato, si segnala:
- perdita accumulata per 44 milioni di euro;
- presentazione del piano industriale triennale 2011-2013, dopo la cui lettura ero satollo di termini generici, ma un po’ a digiuno di numeri (in tutto ne sono enunciati solo “due”).
Il dott. Gianni Riotta è arrivato alla direzione del quotidiano il 30 marzo 2009 con la diffusione a circa 320 mila copie, quando è stato liquidato (a quale costo?), il giornale aveva perso circa 60 mila copie (90 mila euro di mancati incassi al giorno).
La folta stola di amministratori non esecutivi (Luigi Abete, Diana Bracco, Pierlugi Ceccardi, Claudio Costamagna, Mario D’Urso, Antonio Favrin, Giampaolo Galli, Pietro Gnudi, Alberto Meomartini, Nicoletta Miroglio, Antonello Montante, Aurelio Regina e Marino Augusto Vago) che, oltre ad interessarsi solo di altre aziende (le proprie), possedendo, tutti assieme azioni per un controvalore di circa 12 mila euro, non rappresentano, in seno al consiglio, neanche se stessi. In compenso i titolari di cariche sociali hanno percepito, nel 2010 per la sola capogruppo, compensi per quasi 2 milioni di euro.
Qualcuno dei signori di cui sopra ha perso qualche cosa? No.
L’azionista di maggioranza ha chiesto conto dell’operato di qualcuno? No.
Bizzarra veramente questa storia del Sole 24 Ore.
Ma chi è il primo azionista privato del gruppo? Forse la presidente di Confindustria? Qualche manager del Gruppo? Uno dei consiglieri? Un noto imprenditore? Niente di tutto questo: in occasione dell’assemblea di approvazione del bilancio è emerso che l’azionista Giovanni Esposito, con il suo miserabile pacchetto di azioni, è il maggior azionista privato. Il primo soggetto che sicuramente ha pagato, per aver mal riposto fiducia nelle altrui capacità, è stato individuato, il secondo pare sia condannato ad essere la redazione. Non appare, infatti, credibile “tagliare” i giornalisti, senza che sia stato approvato un progetto di risanamento del gruppo, comprensivo di obiettivi da raggiungere, mezzi per realizzarlo e risorse per attuarlo.
Giovanni Esposito
http://affaritaliani.libero.it/mediatech/il_sole_24_ore010711.html

mercoledì 5 ottobre 2011

La montagna di Confindustria ha partorito il topolino

Mercoledì, 5 ottobre 2011 - 12:07:46
"Parturient montes, nascetur ridiculus mus" è la locuzione che Orazio, se vivo ai giorni nostri, avrebbe usato per commentare il manifesto della Confindustria.

Nei giorni scorsi, quando le organizzazioni imprenditoriali e le banche hanno annunciato il lancio del progetto per il nostro paese, la mia mente immaginava un business plan per l'Azienda Italia: un piano articolato che prevedesse obiettivi da realizzare, tempistica per l'attuazione, risorse da utilizzare, ma soprattutto numeri e fatti precisi.

Leggendo il documento, ne emerge la solita, generica e petulante manfrina, composta dagli stessi luoghi comuni che ci vengono propinati da decenni, senza mai specificare come, quando e perché. Secondo consuetudine, nel timore di far indispettire qualche categoria specifica, si è scelto il basso profilo dei massimi sistemi. Insomma sembra un manifesto elettorale, con l'aggravante che la stesura di alcuni punti, lancia sconcertanti dubbi sulla reale conoscenza della finanza pubblica.

1) Eliminare le pensioni di anzianità, equiparare l'età di uomini e donne nel settore privato. Parlare di età di pensionamento, senza commisurarla all'importo dell'assegno erogato non significa granché. Consideriamo, ad esempio, una lavoratrice dipendente che, avendo iniziato a lavorare a 25 anni, dopo una vita contributiva regolare, percepisce, a 60 anni, uno stipendio di circa 2.500 euro al mese: secondo voi è più sostenibile, per il sistema, che lei vada in pensione subito con un assegno di 1.500 euro al mese oppure fra due anni con 2.300 euro?

2) Taglio Irap coperto da una patrimoniale. È bene ricordare, per chi non lo sapesse, che l'Irap è un tributo regionale, il cui gettito viene utilizzato per finanziare la spesa sanitaria. Poiché i bilanci regionali evidenziano che tale imposta sia già oggi insufficiente ad adempiere alla missione prevista, ne devo desumere che si sia immaginato di compensare il gettito di un tributo regionale con una patrimoniale nazionale. E come? E se anche fosse possibile, è stato considerato che la due basi imponibili hanno una diversissima ripartizione territoriale? Inoltre solo una patrimoniale, una tantum e varata senza preavviso, assicura gettito certo. Un imposta sul patrimonio ordinaria no, perché eccetto gli immobili, che, come ovvio, non puoi spostarli da nessuna parte, la ricorrenza impositiva modificherebbe i comportamenti dei potenziali contribuenti al fine di eludere il tributo. Infine ridurre la lotta all'evasione fiscale, sulla quale c'è consenso unanime (almeno pubblicamente), alla sola questione delle soglie di utilizzo del contante, pare ridicolo.

3) Quando sento parlare di dismissioni di Stato un brivido mi pervade la schiena: richiamo alla mia memoria i casi Nuovo Pignone, Telecom, Autostrade, Alfa Romeo, Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica. Poiché dismissione in Italianpolitichese, significa privatizzare i profitti e nazionalizzare le perdite, andrà a finire che gli immobili di pregio saranno svenduti per quattro soldi (possibilmente agli amici degli amici), mentre ci rimarranno sul groppone da mantenere le case sgarrupate.

4) Liberalizzazione è uno degli slogan più belli ed usati nell'epoca moderna, peccato che senza un arricchimento di contenuti, non significhi nulla.  Né tantomeno esiste uno standard universale che vada bene per tutte le situazioni. Cosa si sostiene, ad esempio, pronunciando il dogma di "aprire le professioni": soppressione degli albi? … degli esami di stato? … delle tariffe? In attesa di ricevere chiarimenti, è bene ricordare che le criticità del lavoro autonomo sono totalmente differenti fra le diverse categorie: infatti l'accesso alla professione di farmacista è libero, ma non lo è l'apertura di una farmacia; per i medici, gli architetti e gli ingegneri l'abilitazione è propedeutica e praticamente automatica alla laurea; per i notai esiste la pratica e l'esame di stato ma i posti banditi sono contingentati, cosa che non accade, ad esempio, per gli avvocati; i commercialisti, a differenza di tanti altri, praticamente non hanno attività esclusive. Sulle tariffe professionali, l'Italia dimostra ancora una volta di amare le discussioni sull'aria fritta: invero, vuoi per il caso di strapagati studi altisonanti, vuoi per i professionisti marginali (volgarmente chiamati poveri morti di fame), passando per la consuetudine di concordare un forfait, in casi del tutto residuali si applica il tariffario.

5) Sostenere di reperire i fondi per le infrastrutture tagliano la spesa corrente (ergo gli sprechi), equivale, calcisticamente parlando, ad asserire che per vincere la partita dobbiamo giocare meglio. Cosa si vorrebbe tagliare, non è dato saperlo.
http://affaritaliani.libero.it/economia/confindustria05102011.html

martedì 4 ottobre 2011

Tremonti in... manovra? Meglio una patrimoniale

Venerdì, 15 luglio 2011 - 13:39:00
Di Giovanni Esposito
Quando nel 1992 scoppiò tangentopoli, mai avrei pensato di rimpiangere il Caf (Craxi, Andreotti, Forlani). La classe politica, che la plebaglia italica congedòcon il lancio di monetine, ci lasciò il debito pubblico al 108% del Pil.
In questi giorni sarà varata l'ennesima manovra, ma i nuovi, aggiuntivi ed iniqui sacrifici richiesti non riusciranno ad abbattere strutturalmente il debito pubblico che, dopo un ventennio di seconda repubblica, viaggia al 119% del Pil.
Sarà inutile perché la finanza pubblica non si fa con i balzelli su "deposito titoli" che troveranno altri (para)lidi fiscali, né con la rimodulazione degli incentivi sulle ristrutturazioni edilizie, nati proprio per recuperare gettito in un settore ad altissima evasione.

Se, come io credo, fossero indispensabili dei sacrifici, maggior senso avrebbe avuto l'introduzione di una patrimoniale sugli immobili, accompagnata da un'addizionale Irpef per le case detenute a "diposizione" (quelle non locate e non adibite ad abitazione principale): infatti la base imponibile sarebbe certa (algoritmo basato sulla rendita catastale), l'imposta sicuramente esigibile, non potrebbe avere effetti distorsivi perché gli immobile non scappano da nessun parte, avrebbe un effetto limitato sui consumi e sarebbe sicuramente equa e progressiva in relazione al patrimonio posseduto.

Qualche numero: i circa 65 milioni di unità immobiliari nazionale hanno un VIP (Valore Imponibile Potenziale) di 2.800 miliardi di euro. Un'aliquota del 5%equivarrebbe ad un gettito di 140 miliardi di euro (onere medio di 2 mila euro ad immobile) che abbatterebbe dell'8% il debito pubblico. A proposito di una merce rara nel Bel Paese, l'onestà intellettuale: la patrimoniale la pagherebbe anche il sottoscritto. 

La truffa

Lunedì, 25 luglio 2011 - 10:53:00
Qualcuno prima di me ha detto che si nasce incendiari e si muore pompieri.
A metà degli anni novanta, quando ero intellettualmente in fasce e quindi incendiario, mi divertivo, con un amico, a scrivere canzoni. In una di queste, riflettendo sull’allora situazione politica, ebbi modi di raccontare, in versi, che, in fondo, si trattava di una Truffa.A distanza di tanti anni, forse non sono maturati per me i tempi di spegnare gli incendi, è, però, certo che la classe politica uscita dalle ceneri di tangentopoli, avendo miseramente fallito ci abbia truffato: infatti rileggendo il testo, non sembra riferirsi al 1997, bensì ad oggi … 
La truffa (Clicca qui per ascolatare l'audio)
Mio nonno partigiano
con una bandiera rossa sempre nella mano
ucciso da un fratello con la camicia nera
e con la stesso sangue nella vena.
mio padre comunista per vendetta
vendeva per strada la salvezza:
era il primo 25 aprile
in cui è stato tranquillamente possibile dormire.
Lui scese in piazza
ed aveva fra le mani una mazza
che manteneva un cartello
con su scritto a stampatello:
w la libertà.

A molti venne voglia di partire
a noi fu detto che c’era un Italia da ricostruire.
Per quarant’anni abbiamo costruito
ciò che era possibile del non consentito:
ponti che non andavano da nessuna parte
e scuole senza alunni nella classe;
città senza strade per arrivarci
e ragazzi che volevano imparare e nessuno voleva provarci.
Anni in cui alcuni hanno rubato
ma troppi ne hanno approfittato
poi qualcuno è finito in galera
ma non è sempre stata giustizia sincera.

Dopo di questi
sono venuti tempi diversi:
i politici ora portano la toga
è strano, ma li si vota
nei loro tribunali senza imputati
ci siamo noi, i condannati.
Tutti vendono la terra promessa
ed un biglietto per la salvezza:
meno tasse con il presidenzialismo
più lavoro con il federalismo;
la ricetta sembra un po’ buffa
ma, forse, è la solita truffa.

Ora anche mio padre è partito
per dove a nessuno di tornare è consentito
l’unica cosa che mi hanno lasciato
è la libertà per cui avevano lottato
la libertà di dire
a chi governa ciò che il cuore ci fa sentire
senza che nessuno ci possa bastonare
fin dentro una cattedrale.
Ma ora io chiedo
a loro che, forse, sono in paradiso:
che senso ha parlare
se non c’è nessuno che vuole ascoltare?

11-12 gennaio 1997 (Terza strafa modificata il 23 maggio1997)

Il contributo di solidarietà? Una rapina a danno dei lavoratori onesti

Sabato, 13 agosto 2011 - 11:09:00

Di Giovanni Esposito
L'attuale governo, ingabbiato nella trappola del consenso, ha varato la peggior manovra possibile e, le uniche misure condivisibili, non troveranno mai applicazione: province e comuni di piccole dimensioni non saranno mai soppressi.

Se da una parte le norme annunciate come anti evasione complicheranno la vita delle aziende oneste senza far emergere un solo euro di sommerso, il massimo del populismo, al limite della rapina, lo si è raggiunto con i cosiddetti contributi di solidarietà per i redditi Irpef, pari al 5% della quota eccedente i 90 mila euro e del 10% della quota eccedente i 150 mila euro
. Per i lavoratori autonomi l'addizionale scatta, addirittura, a partire dall'aliquota del 41% che si applica ai redditi superiori a 55 mila euro.

Questa misura, fatta per appagare la maggior parte (il 99%) dei 41,5 milioni di contribuenti che "dichiarano" meno di 90 mila euro annui, è una rapina a danno dei lavoratori onesti. Dei lavoratori perché le grandi rendite di capitale ed ora immobiliari, essendo soggette ad imposta sostitutiva, sono esenti da Irpef. Onesti perché in un paese con un'altissima evasione fiscale, nessun governo in buona fede applicherebbe una tale extra tassazione sui redditi dichiarati.

Bizzarra appare poi la misura di abbassare la soglia del contributo per i lavoratori autonomi, a meno che non si voglia stabilire per legge che, tale categoria, essendo composta da evasori, a parità di dichiarato, debba pagare più imposte.

Non so se questa misura possa incentivare ulteriore evasione, ma la consapevolezza di dover devolvere, in tasse e contributi, il 75% (43% irpef, 5% irap, 2% addizionali, 15% cassa previdenziale, 10% contributo solidarietà)  del guadagno marginale, potrebbe rappresentare un incentivo a non lavorare troppo.

In altri termini per i lavoratori autonomi appare di dubbia convenienza tornare un'ora più tardi a casa, per incassare forse 100 euro in più, sapendo che in tasca me ne resterebbero solo 25 euro.
http://affaritaliani.libero.it/politica/manovra_esposito130811.html

Per re Sergio è arrivato il momento di abdicare

Venerdì, 19 agosto 2011 - 11:02:00
Fiat ordinaria nell’ultima settimana ha lasciato sul terreno il 15%, ad un mese la perdita è del 40%. Il vento di recessione che attanagli i titoli ciclici? Si certo, ma ce dell’altro.
Quando Sergio Marchionne è stato nominato amministratore delegato della Fiat si era chiuso l’annus horribilis della Fiat, nel quale le quote nei mercati automobilistici di riferimento erano risultate: 28,0% in Italia, 7,4% in Europa occidentale, 25,2% in Brasile, 17,8% in Polonia e Usa, Cina, India e Russia marginale. Dopo sette anni di re Sergio, le percentuali di penetrazione del mercato sono: 29,3% in Italia, 7,2% in Europa, 22,6% in Brasile, in Polonia poco sopra il 10% e Usa, Cina, India e Russia inconsitente.
Il punto, nella sua gravita, è estremamente semplice: Marchionne sarà, probabilmente, un grande negoziatore, forse un bravo ristrutturatore, sicuramente di auto non ne capisce nulla.Confindustria lo rincorre, i sindacati lo temono, i politici lo guardano con sospetto, l’opinione pubblica lo osanna, ma i consumatori non se lo filano proprio.Per l’Homo sapiens sapiens l’auto rappresenta una passione, una scelta di vita, un vestito, uno status symbol.
Ciò non dimeno, il grande Sergio questo non lo ha capito: per lui l’auto è semplicemente un oggetto che dovrebbe soddisfare il bisogno di spostamento, ossia un mezzo di trasporto.
Solo cosi si può spiegare il fatto che le gamme nostrane non abbiano un family styling, che non ci sia continuità dei modelli e che le stesse auto vengano vendute territorialmente con loghi diversi.Se compariamo i volumi di vendita, numero famiglie/prodotti e numero modelli di alcuni Brand del mercato europeo.
tabella marchionne esposito


Abbiamo la vera dimensione del fenomeno: il marchi non hanno, nemmeno, una gamma prodotti adeguata ed completa.
Re Sergio, in sette anni, ha saputo imporre le sue scelte a sindacato e politica sulle due sponde dell’Oceano, trattato egregiamente con i partner industriali, piegato le Banche; ebbene il suo regno è finto: all’ultimo piano del Lingotto ora deve regnare qualcuno che sappia vendere auto.
http://affaritaliani.libero.it/economia/marchionne_fiat190811.html

lunedì 3 ottobre 2011

Stop alle missioni all'estero

Sabato, 20 agosto 2011 - 13:00:00

Egregio presidente, le missioni all'estero non ce le possiamo permettere. Egregio Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ritengo che, in questo Paese sconquassato, i cittadini possano riconoscere ed identificarsi in due istituzioni: La Presidenza della Repubblica e l'Arma dei Carabinieri. Apprezzo e le sono grado per il ruolo di garanzia che oggi rappresenta, ma, su una questione fondamentale, siamo in totale disaccordo: le missioni militari all'estero. Non mi considero né guerrafondaio, né contrario senza se e senza ma. Non voglio, quindi, entrare nel merito delle missioni (anche se alcune appaiono di dubbia utilità e giustificazione), tuttavia, in momento di taglio di servizi essenziali e richiesta di pesanti sacrifici in Patria, ravviso l'opportunità di interrompere le nostre missioni militari all'estero.

Egregio Presidente, non le vorrei sembrare egoista, deve, però, comprendere che risulta difficilmente accettabile investire nella sicurezza (ipotesi ottimistica) degli altri popoli, quando non abbiamo risorse per garantirla a casa nostra. Insomma secondo lei sono opportune ed io ci voglio credere, ciò nondimeno questi 1,6 miliardi di euro l'anno non ce li possiamo permettere.  E stia sereno, non sarà sicuramente questo che ci farà perdere (ammesso che oggi ci sia) prestigio internazionale.
http://affaritaliani.libero.it/politica/stop_alle_missioni_all_estero.html

Termini Imerese/ Un Dr Motor per Termini. Facile crederci per 560 mln

Venerdì, 9 settembre 2011 - 12:28:00
Storia veramente travagliata quella delle aziende da selezionare per la riconversione di Termini Imerese, dove la Fiat chiuderà il suo stabilimento a fine anno. L'accordo di programma firmato il 15 febbraio scorso, poggiava le basi del rilancio industriale su tre iniziative: Suv a marchio De Tommaso, l'auto elettrica di Cape Rev e Le serre di Ciccolella. Mentre il governo e le parti sociali festeggiavano, io esprimevo, su questo quotidiano (http://affaritaliani.libero.it/economia/lettera_a_romani19022011.html), serie critiche sulla validità delle iniziative.

Infatti: Ciccolella (il cui presidente e amministratore delegato, Corrado Ciccolella è finito nel mirino della giustizia per l'utilizzo di diversi milioni di finanziamenti europei per fini diversi da quelli per i quali erano stati concessi) e Cape Regione Siciliana (il cui vice presidente,Cimino è finito in manette su ordine della procura di Milano) sono uscite subito di scena. A "ruota" il progetto di Rossignolo di costruire Suv di alta gamma è stato cassato perché ritenuto inaffidabile. Ora tutto si affidano alla Dr di Massimo di Risio, che conta di produrvi 60 mila vetture l'anno. L'obiettivo sembra abbastanza ambizioso, ma per 550 milioni di euro ci crederei anch'io.
http://affaritaliani.libero.it/economia/termini_imerese_dr_fiat09092011.html

Patrimoniale, potrebbe essere il male minore

Domenica 18 settembre è apparso, sul Sole 24 ore, un editoriale del prof. Guido Tabellini dal titolo << patrimoniale non significa crescita >>, nel quale si utilizzano una serie di argomentazioni, per stroncare sul nascere tale ipotesi.
Nonostante l’autorevolezza del prof. Guido Tabellini sia unanimemente riconosciuta e la mia personale stima, le sue argomentazioni non convincono.
In primo luogo, al fine di ottenere lo stesso risultato (ridurre lo stock del debito), non vengono indicate misure alternative alla da lui definita “superficiale”patrimoniale. Siccome mi sento di escludere che il Professore ritenga che un debito pubblico al 120% sia sostenibile per un paese a bassa crescita come l’Italia, le sue considerazioni sarebbero state maggiormente persuasive, se avesse indicato un’alternativa. Perché, salvo prova contraria (non enunciata), la patrimoniale potrebbe anche rappresentare il male minore.
Nel merito, l’analisi sembra trascurare due elementi: equità e crescita.
Il processo che ha portato il debito pubblico italiano verso livelli non sostenibili, è avvenuto negli anni ottanta, quando al crescere smisurato della spesa pubblica, non ha fatto seguito un pari incremento delle entrate. Siano state basse le entrate oppure alte le spese, resta il fatto che il popolo italiano vive, da oltre tre decenni, oltre le proprie possibilità, il che ha permesso di accumulare una ricchezza privata maggiore di quanto fosse diversamente possibile. Tassare la ricchezza privata sarebbe in ogni caso un metodo per far pagare a chi, per quanto inconsapevole, ha beneficiato della crescita del debito (equità).
Una patrimoniale da 100 miliardi di euro, alle condizioni di mercato attuali, permettere un risparmio annuo perpetuo di interessi su debito pubblico di 3,5 miliardi di euro, che in dieci anni sono 35 miliardi di euro da destinare, se lo si ritiene prioritario, alla crescita.
 3 ottobre 2011                                                                                                                 Giovanni Esposito

domenica 2 ottobre 2011

Fiat/ L'Alfa Romeo? Meglio venderla alla Volkswagen

Lunedì, 5 settembre 2011 - 12:42:00
Di Giovanni Esposito
Nel 1933 Henry Ford inviata a togliersi il cappello al passaggio di un Alfa Romeo, oggi, se fosse vivo, difficilmente potrebbe ripeterlo; non tanto per la qualità delle vetture, bensì per l'improbabilità di vederne qualcuna, oramai anche nei concessionari. Con la fine della produzione della 159, in catalogo rimarranno solo due modelli (Mito e Giulietta) e chi sa cosa dovranno inventarsi i venditori per riempire gli showroom del Biscione.Dopo oltre cento anni di storia, non esiste più uno stabilimento dedicato all'Alfa (dal 2012 a Pomigliano d'Arco avviteranno i bulloni della Panda). La confusione che regna a Torino ha raggiunto una tale dimensione, da non avere la più pallida idea di dove produrre il prossimo modello. Quando il dott. Marchionne prese le redini del gruppo, il marchio immatricolava la modesta cifra di 150 mila autovetture l'anno in Europa, importo che non è stato più raggiunto. Il brand possiede le potenzialità per vendere almeno 500 mila vetture l'anno, ma per fare ciò è necessario un aggressivo family style ed implementate una gamma che offra i seguenti prodotti: piccola (4 metri) in variante 3 e 5 porte; "compatta"; "media" in variante berlina e station-wagon; berlina grande (Executive car); coupé; spider; suv medio piccolo; crossover grande.I confusi, contradditori, nebulosi ed inadeguati piani prodotto del Cav. Marchionne, a tutto il 2012 non prevedono novità, poi forse arriverà un Crossover (quello di cui non si riesce a definire neanche il sito produttivo). Il Governo ed i sindacati tacciono su questa vergogna. Marchionne ha voluto il referendum a Mirafiori ed ha vinto il suo sì, ora perché non si pretende che lui rispetti l'impegno di produrvi i Suv?Appare del tutto evidente che al Lingotto non ci sia né volontà industriale, né visione strategica, né capacità manageriali, né risorse finanziarie per rilanciare l'Alfa Romeo. Ferdinand Piech, il numero uno del colosso tedesco Volkswagen, a più riprese ha pubblicamente dichiarato la disponibilità a comprare; ed in seno al gruppo di Wolfsburg vi sono tutte le professionalità, anche italiane (Luca de Meo e Walter da Silva), per assicurare il rilancio. Insieme al marchio potremmo cedere e salvare due stabilimenti italiani. Già nel 1986 la Ford offrì 4 mila miliardi di lire per acquisire l'Alfa Romeo ed altrettanti per gli investimenti. L'Iri di Romano Prodi, erroneamente, non accettò per poi cederla alla Fiat. È inutile rimuginare sugli errori del passato, ma per il futuro meglio viva e teutonica che agonizzante in mani italo-canadesi.
http://affaritaliani.libero.it/economia/fiat_alfa_auto_vw05092011.html

Privatizzare? Vade retro

Giovedì, 29 settembre 2011 - 12:13:44

Di Giovanni Esposito
Premessa. Privatizzare, in linea di principio, è cosa buona e giusta. Lo Stato italiano possiede, direttamente e/o indirettamente, partecipazioni, concessioni ed immobili. Teoricamente c'è molto da vendere, ma poche attività sono liquide e si rischia di svendere per la necessità di fare cassa.
Ciò premesso, in tempi brevissimi si potrebbero cedere le partecipazioni delle quotate per un controvalore (alle quotazioni di  venerdì 23 settembre 2011) di 25 miliardi di euro.

Cosa ci dice un'analisi costi/benefici?
Senza considerare la rivalutazione in conto capitale (valore del titolo), nei fatti l'introito delle privatizzazioni servirebbe a non emettere nuovi titoli di Stato.
Costi: minori incasso di dividendi. Per quantificare i dividendi si immaginano due scenari: nel primo la cedola distribuita calerebbe nel 2012 al 50% del 2011, per risalire a tale valore solo 2017; nel secondo il calo sarebbe al 75% nel 2012 per ritornare a livello 100 nel 2014.
Benefici: interessi sul debito non corrisposti in base alle ultime aste di titoli di Stato.
L'analisi porta ai seguenti risultati:



tabella crisi debito
In altri termini, gli interessi sul debito non corrisposti sarebbero talmente inferiori ai dividendi non incassati che, a 10 anni senza considerare la possibile rivalutazione del corso delle azioni, la perdita sarebbe del 25%, del 47% se non superiore.